lunedì 21 ottobre 2013

HAG@ #3 / 1999

H_A_G_@ # 3 / Febbraio 1999
 
[non solo pettegolezzi, ma, soprattutto, critiche: alle mostre e ai critici e a come criticano...]
 

Certo, da una mostra come "ROSSO VIVO. Mutazione, Trasfigurazione e sangue nell'Arte Contemporanea" (in corso al PAC di Milano) ci aspettavamo molto di più. Non solo dalla mostra, (che era necessaria ma è forse un po' una occasione sprecata, perché si poteva fare molto meglio), ci aspettavamo del materiale interessante per il nostro notiziario, e invece, tutti buonini, forse per evitare le isterie di FAM contro la stampa.

Non si sbilancia nel giudizio Angela Vettese ("Il sole - 24 ore" del 24/1/99), lasciandoci un dubbio ancor più grande del suo: "Si esce dalla mostra con il dubbio che il gusto del sangue e della manipolazione del corpo non sia nato nel presente futuribile, ma alberghi nella coscienza umana fin da quando si è accorta di essere insieme scissa e separata dal corpo stesso: è attorno a questo mistero che girano, oggi come ieri, fantasie e liturgie. Un altro dubbio assai più terra terra: chissà se il PAC conserverà per sempre l'allestimento pensato da Ennio Capasa, una moquette che unifica lo spazio e conferisce dignità a qualsiasi cosa".

Quanto al signor Capasa, che non conosciamo per nostri evidenti limiti - e che Lea Vergine definisce "un sarto tutt'altro che sconsiderato" - si presenta (come da Comunicato Stampa) come "il primo stilista a cui è stato chiesto di ideare l'allestimento di una mostra d'arte" e lo ha fatto rivestendo tutto di feltro grigio, "come metafora dell'interno del corpo", mentre "una linea rosso vivo, verniciata per terra a 60 cm. dai lavori, simbolizza un'arteria di continuità fra le opere d'arte".

 
Più interessanti le notizie dal fronte del pubblico: ecco il FAX che il (crediamo) giovane LUCA (che speriamo completamente digiuno di arte) ha spedito [22. GEN. 1999  11:37] all'amica ALESSANDRA:              

CONTRO L'ESTETICA DEL RIGOR MORTIS.

Sono andato all'inaugurazione di una mostra d'arte contemporanea, il cui tema era la rappresentazione del sangue nell'arte contemporanea. Rappresentava una panoramica dei lavori degli artisti d'avanguardia nel campo dell'arte irregolare, multimediale e di performance.  Sono andato a vedere la mostra con un leggero pregiudizio, con il presentimento che non mi sarebbe piaciuta, che l'avrei trovata poco interessante, che non mi avrebbe coinvolto né colpito.  In parte avevo ragione, in parte torto. La mostra non mi è piaciuta, però mi ha colpito profondamente, spaventosamente. Premetto dicendo che si trattava di un'esposizione ben curata, ed allestita degnamente, in cui i lavori seguivano una mirabile coerenza e un livello di "qualità" o di raffinatezza formale omogeneo.  Però l'effetto di quelle opere, la poetica ed il messaggio ad esse sotteso, mi ha letteralmente sconvolto. Ho assistito alla rappresentazione dell'estetica del male, alla rappresentazione concettuale dell'inferno, ed ho visto di riflesso il mondo contemporaneo rispecchiato nei suoi valori di riferimento. Ho visto spettatori e spettatrici eccitati dallo spettacolo della morte, dallo shock del dolore e dall'angoscia fini a se stessi. E non ho potuto fare a meno di pensare alle immagini elettroniche, ai fosfori verdi di bombe intelligenti, a dirette televisive dai fronti di guerra, a reportage sulle autostrade nei giorni di festa. Una rappresentazione della morte che non ha traccia di denuncia, ma solo autocompiacimento, libidine, vuoto estetismo del dolore, psichico e fisico. Nelle opere rappresentate in cui non appariva nulla di palesemente splatter, era però evidente, inequivocabile, la valenza entro cui tutti gli artisti si muovevano, la valenza del male assoluto, l'estetica dei campi di sterminio. Un quadro completamente ed uniformemente rosso, di un rosso sangue della tonalità esatta, fisiologica, in cui l'assenza di forme lasciava lo spettatore libero di immaginarsi il proprio orrore preferito, ma sempre entro la cornice del dolore. Ritratti fotografici di un volto deformato chirurgicamente per rappresentare, la mostruosità, l'orrore, innanzitutto verso se stessi, per trasformare se stessi nel proprio incubo ed evocare negli altri l'incubo di ognuno. Immagini elettronicamente manipolate per rappresentare stanze di carne in cui il corpo, la carne è solo un limite per la mente, un supremo orrore che impedisce la libertà, in cui si insinua il sospetto di una tortura, del passeggiare nel corpo altrui come fosse una stanza, come fosse luogo calpestato. Una grande scultura, vagamente simile a un corpo, dalle linee organiche e morbide, sospeso nell'aria, interamente costituito da carapaci di scarabei minuziosamente incollati l'uno sull'altro nessuna sensibilità per le incredibili forme naturali, per straordinaria estetica (quasi fantascientifica) del design di gusci, teste, antenne, corna. Solo morboso desiderio di un corpo che susciti il disgusto, di una fisicità demoniaca e brulicante, che evochi insetti, decomposizione, sporcizia e morte.  Un angolo della mostra era occupato dalla falsa rappresentazione della scena di un delitto, come se fosse il set di un thriller americano, recintata da un nastro giallo, con la sagoma del corpo segnata da un gesso bianco e con tutti gli oggetti della vittima sparsi così come sono stati trovati dai primi inquirenti. Una parete piena di parti di carrozzeria, ritagliate al loro interno da sagome color rosso sangue, prevalentemente a forma di cuore, unica scelta immaginarsi incidenti, tamponamenti a catena, crash apocalittici, in cui i sentimenti si schiantano come corpi l'uno contro l'altro.  E poi fotografie di scheletri ibridi di animali impossibili, di trasformazioni, trasfigurazioni, lacerazioni del corpo e più ancora dell'anima, segni di un cristianesimo ormai morto e resuscitato in vuota forma di zombie, che aleggia crocifisso. Ed ovunque il segno della morte, della disperazione, della schiavitù, dell'assenza assoluta di speranza, di umanità, di compassione alcuna, verso chiunque, principalmente verso se stessi. Ed in tutto questo ho visto riflessa la mia città, le sue paure, la sua assoluta mancanza di speranza, di fantasia, di immaginazione. Mi è sembrata un'arte che non sente più il corpo, non sente il tempo, non sente lo spazio, un'arte annichilita nel presente, che consuma le esperienze, le divora come cromo i suoi figli. Ho visto la assoluta assenza di considerazione per il corpo che non è più niente, assolutamente niente, solo un oggetto tra gli oggetti, vittima della stessa vuotezza di un prodotto di consumo, di cui ci si stanca subito, e si getta per passare ad altro. Mi è sembrato che l'equazione sesso morte velocità consumo fosse stigmatizzata nella sua perfezione, e che non ci fosse critica né via d'uscita, ma solo autocompiacimento. Inoltre non ho trovato alcuna ricerca, alcuna analisi formale, nessun amore per le mani, per quello che una sensibilità può produrre, una assenza di magia agghiacciante, assenza della magia del fare. E poi, in maniera assolutamente imperdonabile, la violenza verso lo spettatore, la coercizione a cui lo spettatore è sottoposto, per cui viene privato della scelta, nessuna interpretazione possibile, nessuna libera evocazione di simboli, nessun dialogo interiore mediato dall'oggetto artistico, solo supina accettazione del messaggio del (sic) artista, Nell'opera d'arte c'è sempre uno scarto, un margine imprevisto, tra le intenzioni dell'artista e le sensazioni del fruitore, le due cose non possono e non devono coincidere mai, lasciando che anche l'esperienza di un quadro, di una statua, o di una sinfonia, siano un atto creativo, imprevisto, magico in cui universi interi si intersecano e generano un'esperienza non codificabile. Qui no, nessuna libertà, nessuna possibilità, nessuna speranza, morte disperazione dolore. Ma dunque se il prodotto più raffinato di una struttura di relazioni che chiamiamo società, si riassume in tutto questo, cosa resta, che possibilità abbiamo. Se siamo ormai giunti all'estetica del suicidio, dell'autoflagellazione fine a se stessa, solo per vedere le forme delle mie ferite e perché sono affascinato dal sangue, dal suo colore, cosa resta dell'umano?              

Ora capisco meglio la morbosità d'un incidente d'auto, la morbosità nei confronti della cronaca nera, delle guerre in Ruanda e in Bosnia Erzegowina, delle bombe su Bagdad. Però io non mi riconosco, rifiuto e disprezzo le forme, i modi, i contenuti, gli autori e i promotori di questa idea dell'arte, di questa orribile barbarie vuota e gelida. Comincia oggi una strenua guerra, una resistenza militante all'orrore culturale che mi circonda, la mia guerra culturale in cui mi oppongo con un'arte che sia lentezza, profondità, calore, emozione, potenzialità del corpo, sacralità della vita in tutte le sue forme e manifestazioni, che sia il segno della libertà dell'immaginazione, della speranza, un'arte che sia tempo e spazio, che sia armonia e sviluppo, ci parli dell'anima, che abbia il sorriso, che sia dolce, che sia vita.

Chiunque sia d'accordo sottoscriva e diffonda, mi aiuti e combatta, per non soccombere, perché l'inferno non cominci in vita.
 

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Panorama n.6 - 11/2/99 - PANORAMA - Kultura. Soltanto voci politicamente scorrette.
IL CRITICONE di PATRIZIA VALDUGA.

DUE POPOLI DI PITTORI E POETI. Sponsorizzazioni eccellenti per uno sgangherato catalogo.

Sotto l'alto patronato dei presidenti Oscar Luigi Scalfaro e Rexhep Mejdani, con l'avallo di Lamberto Dini e i soldi del suo ministero, poeti e pittori italiani e albanesi si sono "confrontati" a Tirana in una mostra "dinamica, intesa come workshop, confronto diretto, incontro vivo e umano", scaricando a Molfetta l'inevitabile catalogo double-face che andiamo sfogliando.

Anedda, Bellintani, Benedetti...una poesia per poeta. Edita o inedita? Non è dato sapere. Ma veniamo a sapere che Majorino si chiama Umberto invece che Giancarlo e ha diretto l'inesistente rivista "Poesia e realtà", che Antonella Anedda ha tradotto Philippe Jacconet e Fabio Pusterla Philippe Jaccottet, e che Loi collabora col "Sole XXIV ore" (sic).  La Frabotta, la Merini e Zeichen non hanno pubblicato neanche un libro, Sanguineti solo "Passaggio" e "Labortintus II" (sic), ma Franco Buffoni, che fa parte del "Coordinamento scientifico" per la "Sezione opere di poesia italiana", può vantare otto volumi e nove premi.  Fiori, Frabotta, Genna... Chi è Giuseppe Genna? È il responsabile del "Coordinamento sezione Opera di Poesia italiana".

Chissà poi come avrà fatto a confrontarsi il compianto Alighiero Boetti, in questo "incontro vivo e umano". E come avrà fatto Mario Schifano (1934-98), di cui si dice che è "nato nel 1914, vive e lavora a Roma", con le sue sole quattro mostre personali?  E chi è il pittore Paolo Lunanova?  Non è altri che il responsabile del "Coordinamento allestimenti mostra". E chi è infine Gaetano Grillo (17 personali e 40 collettive)? È l'artifex maximus di questa "Mediterranea", numero 1. Il "confronto" continua e chi più ne ha più ne metta.
 

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A proposito dello sfregio di un'opera di Pollock alla GNAM di Roma riceviamo da Luther Blissett  (ultramega@polimedia.it) un messaggio in solidarietà a Piero Cannata.
Epistola ex Vaticanis Museis n.37_27_01_1999

 
COMUNICATO STAMPA: 27 gennaio 1999
AD OGNI TEMPO LA SUA ARTE!LUTHER BLISSETT IN SOLIDARIETA' A PIERO CANNATA
Ieri, 26 gennaio '99, Piero Cannata è intervenuto sul dipinto di Pollock "Sentieri Ondulati" conservato alla "G.N.A.M." di Roma. Vi sfido: sfido chiunque dei giornalisti che hanno scritto della sua azione a distinguere la pennarellata di Cannata da uno qualunque degli scarabocchi di Pollock. L'intervento di Cannata è il migliore tributo che persona potesse fare ad un artista quale era Pollock. L'unica differenza che corre tra l'espressionista astratto americano e il performer italiano è che il primo consumava le sue follie in un "contesto artistico" e ricercava, trovandolo, il supporto teorico ed economico di critici e galleristi, senza il quale anche Pollock sarebbe stato probabilmente rinchiuso in un manicomio (sulle pareti, forse, sarebbero appese le sue "opere", sottoposte al ludibrio degli infermieri). Jackson Pollock non dipingeva, lui sgocciolava, imbrattava, sporcava, nelle sue tele si possono trovare cicche di sigarette e fiammiferi, sputi e quant'altro. Un giorno Pollock urinò nel camino di Peggy Guggenheim, sì, gli pisciò dentro sotto lo sguardo di molti presenti, probabilmente era sbronzo. La qual cosa divenne immediatamente una delle più celebri "performance" del grande genio, la vita del quale è costellata di azioni come questa. Quel caminetto è tuttora in una delle salette che danno sul canale: quali sarebbero, secondo voi, le reazioni dei guardiani dell'attuale "Peggy Guggeneim Collection" se Piero Cannata, o un qualunque anonimo avventore del museo, urinasse nello stesso caminetto? E' evidente, non urlerebbero al genio, nella migliore delle ipotesi se la caverebbe con una denuncia. Chi ha la certezza che l'opera di Pollock si più importante di quella di Cannata? Chi ha la certezza che Pollock non sarebbe stato entusiasta della miglioria? Perché un'opera d'arte deve rimanere appesa ad una parete e nessuno può fare altro che guardarla, quando è evidente che la vista sia solo uno dei sensi cui un'opera debba essere sottoposta (si dovrebbe poter toccare e odorare...) e poi che importa se così facendo le opere deperirebbero più velocemente? E' così importante che un'opera rimanga sacra e inviolata all'infinito? Non sono forse proprio i musei che rinchiudono sculture di Calder in stanze chiuse, quando furono proprio ideate per essere esposte all'aperto e mosse dal vento? Non sono sempre i musei che transennano oggetti di Beuys e macchine di Tinguely create proprio per interagire con il pubblico, violandone l'essenza? Se ciò che più importa di un'opera d'arte è l'intenzione dell'artista che la produsse, allora il quadro di Pollock non era stato certo creato per un teca, e l'intervento di Cannata è lecito e anzi particolarmente azzeccato; al contrario sembra che siano altri i principi che muovono musei e gallerie, cioè solamente il valore economico (cosa cui siamo abituati), ma stando così le cose che non si parli più di sacralità e intoccabilità  dell'arte, ma di puro e semplice valore commerciale. Cannata é un artista (se questa parola ha mai avuto un senso), a differenza di Pollock, Piero Cannata non scende a compromessi con il sistema dell'arte, non facilita né ricerca l'approvazione di critici e galleristi, non gli interessa, ha cose migliori da fare. Non è il primo caso, si intende, non si può non pensare a casi come Van Gogh, cioè a persone che, non  comprese nella loro epoca, sono poi state rivalutate a distanza di anni. E ci piace pensare quanto erano ciechi i contemporanei di Van Gogh, quanto erano ignoranti a non riconoscere il suo genio, ah, che tempi bui erano quelli. Oggi invece... ah… oggi sì l'arte è finalmente libera e senza pregiudizi. Domani Piero Cannata verrà nuovamente rinchiuso in un manicomio, dove ha trascorso i precedenti due anni della sua vita, e ci vorranno decenni prima che, finalmente, gli venga attribuito il suo merito.
Piero Cannata non solo entrerà nei libri di storia dell'arte, ma ci entrerà come uno dei più  radicali e innovativi artisti degli anni novanta. Ovviamente bisogna aspettare la posterità.
Luther Blisset
(RASSEGNA STAMPA: da "Repubblica online" 26 gennaio 1999.Vandalo "di professione" contro un'opera di Pollock;  da "Repubblica", pagina 21, 27-1-99    "L'Attila dell'arte" colpisce ancora;  da "Repubblica", pagina 21, 27-1-99   "Rifarei tutto, potrebbe toccare anche al Louvre"; da "Repubblica", pagina21, 27-1-99  "Schediamo quei vandali e diamo le foto ai custodi";  da: "Repubblica online", 2-2-'99  E se Cannata "il matto" fosse più artista di Pollock?  di Luther Blissett;  da "Repubblica online", 2-2-'99   Una risposta alla provocazione "pseudo futurista": Pollock era un artista  consapevole, i valori non si annullano.  Caro Vagheggi, il manicomio è una cosa seria, molto più seria dell'arte! di Luther Blissett)

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